Le lettere dell’Alfieri (1947)

«Rassegna d’Italia», a. II, nn. 11-12, Roma, novembre-dicembre 1947, pp. 20-24; testo poi ampliato nella introduzione a V. Alfieri, Giornali e lettere scelte, Torino, Einaudi, 1949, e ancora ripreso e rivisto in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, ma scompare nella terza edizione del 1969 per essere ripreso in Saggi alfieriani (1969 e 1981) e poi in Studi alfieriani (1995). Ne riproduciamo l’edizione 1995.

Le lettere dell’Alfieri

Il gusto contemporaneo ama gli epistolari dei poeti, sia per la curiosità del documento di vita e di rivelazione dei segreti di una personalità illustre e per il forte interesse di vivere piú a diretto contatto con un autore amato, sia, piú in alto, per l’esigenza critica di leggere i segni intimi, la vita interiore di uno scrittore nei suggerimenti preziosi della sincerità per una conferma di realtà vitale, o finalmente in vista delle sue preferenze, del suo gusto, della sua poetica. Oltre che per il bisogno estetico di pagine a lor modo poetiche, e poetiche in una zona meno esemplare e presumibilmente piú istintiva. Ma l’epistolario alfieriano, poco numeroso e non molto continuo, non ha per ora goduto un vero favore dei lettori né una specifica attenzione dei critici[1].

E il lettore comune può leggere ad esempio nell’Enciclopedia italiana che l’epistolario alfieriano è poco importante e come valore biografico è interamente sostituito dalla Vita.

Certo l’epistolario alfieriano non è ricchissimo di “belle pagine” continue, non offre molti gruppi a romanzo autobiografico e a confessione romanzesca (come sono invece gli incantevoli Giornali nel loro tono di confessione di un figlio del secolo diciottesimo, in toni acerbi di angoscia preromantica e di ritmo narrativo da romanzo illuministico) come il carteggio Foscolo-Arese o Carducci-Lidia o gli sfoghi del Leopardi al Giordani e al Ranieri; né offre una corrispondenza di serrata importanza culturale su di alcuni problemi ben precisi (come il carteggio Goethe-Schiller), se si eccettua la corrispondenza notevole con il Caluso.

E d’altra parte alla scoperta di nuove date, di nuovi fatti biografici, le lettere non danno che un contributo saltuario (o per la tecnica del tragico offrono pezzi isolati ed estratti tradizionalmente o riportati nella stessa Vita); e questa fu la ragione principale del relativo disinteresse del periodo positivistico tutto volto alla cronaca esterna, come d’altronde il prevalente interesse della critica idealistica alla storia della poesia fece trascurare la zona piú umile, ma fertilissima, di una possibile cronaca sentimentale, spia di una vita interiore (che sembrava tutta data del resto dalla Vita) e di un’offerta interessantissima di attacchi fra esperienza e poesia in un tono medio già letterario, ma poco atteggiato letterariamente.

È da un punto di vista piú largo ed attento al sorgere del valore poetico entro i fermenti di una vita nelle sue reazioni al tempo, al ritmo vitale come piacere e dolore, come agio e malessere, come realtà e sogno scanditi nel piú istintivo e originale pulsare del temperamento, che le lettere alfieriane possono mostrare il loro valore, rivelare ad un sottile reagente i loro caratteri non vistosi, ma essenziali per la comprensione piú intensa e moderna del poeta di Saul e Mirra e del petrarchista romantico: ed offrono allora anche esempi di una prosa poco ambiziosa ma a suo modo poetica proprio nella sobrietà estrema, in un agio intimo che fa da eco leggera ad avvii, a movimenti, a cadenze fermati nel loro nascere piú puro. E, diciamo pure, aiutano a comprendere non tanto la statua risorgimentale, quanto il tragico-lirico, piú europeo e piú moderno di quanto le incrostazioni ottocentesche ci permetterebbero di solito di riconoscere.

La critica crociana e postcrociana, dopo l’articolo di Croce del ’17[2], ha certamente arricchito ed approfondito la nostra capacità di conoscere l’Alfieri ben al di là dei risultati ottocenteschi, al di là di quella figura di poeta del “sublime” romantico e classicista per cui Stendhal, dopo un primo amore appassionato per il poeta della libertà e dell’energia, finí per stancarsene e dichiarare che in Alfieri c’è troppo poco di umano[3].

Con la critica contemporanea l’Alfieri ha avuto il suo posto su di uno sfondo piú vasto, meno provinciale (il preromanticismo europeo), sí che le sue intuizioni han perso la loro angustia di valore unicamente patriottico, si sono spiegate e legate a quelle di un movimento essenziale nella storia della cultura europea (la rivolta dell’individuo dentro la cultura inadeguata del razionalismo sensistico, la tensione contro ogni limite trascendente o mondano che contrasti alla sua illimitata affermazione); il suo pensiero è stato ricostruito nella sua origine passionale, ma anche nella sua efficacia di intuizioni e di tentativi nuovi (cosí le sue intuizioni sullo stato, che De Ruggiero potè rilevare come importanti nella Storia del liberalismo europeo[4]); la sua poesia è stata esplorata nella sua grandezza solitaria e nella sua sensibilità dolente dietro le statue tragiche piú convenzionali con la maggiore considerazione delle Rime; e per la Vita, specie per la prima parte di questa, si è parlato di poesia della memoria, di Proust, di anticipazioni leopardiane[5]. Ebbene, per reagire piú dal profondo al vecchio figurino risorgimentale e magnanimo del vate patrio («il nostro Padre» di cui parlava l’Ornato nel ’12), del volontarista un po’ scolastico («volli, sempre volli, fortissimamente volli»), del genio corrucciato e «che mai non rise», quale, giustamente dal suo punto di vista, lo vide il Risorgimento, e persino del poeta «Irato a’ patrii numi»[6] della grande trasfigurazione foscoliana, le lettere offrono elementi sicuri e servono, insieme alla Vita e, su altro piano, alle Rime, a distendere e a rafforzare insieme il ritratto alfieriano umanizzandolo e articolandolo senza cadere nell’antieroico del Bertana. Ritratto non antieroico (ché la tensione alla tragedia, alla poesia senza dolcezza, è certamente la linea centrale del preromantico Alfieri e il suo gesto pregno e tragico corrisponde alla sua poetica eteronoma di poesia come lotta e sfogo di passione generosa, di purezza contro ogni viltà conformistica) ma antiretorico sí, come si ottiene ripulendo e restaurando il suo volto potente, ma umano, dalle mani di gesso accademico che finirono a un certo punto per colmare e pareggiare le sue sensibilissime pieghe passandolo da volto a maschera.

Non ho d’altra parte affatto l’intenzione di disperdere la sua serietà intenta, la presenza in lui di «ira e malinconia»; ma (proprio mantenendolo nel suo valore di annunciatore della tempesta romantica, di poeta della tragica situazione dell’individuo anelante ad una totale liberazione non solo politica) le lettere possono rivelare gli stati piú sinceri e nudi dell’animo alfieriano in un’atmosfera meno fremente, il suo modo di vivere, nelle sue ore piú comuni che eran nutrite anche di contatti umani, di piaceri minuti, di occupazioni e manie, di affetti e di fastidi che passano, per un orecchio attento, nella vita di sentimenti che sorregge le sue figure tragiche e ci giustificano piú facilmente la complessità di passione e di pudore, di sublime e di domestico che c’è in Mirra, e che danno alla solitudine, all’ansia di amore, all’ossessione della morte, l’appoggio concreto di una prima vita di questi sentimenti in una zona umile e intatta da ogni possibile retorica e pure già volta alla loro trasfigurazione letteraria.

Quel tono di convulsa ossessione che spesso si addensa intorno alle parole alfieriane nelle tragedie (ed è spesso la sua retorica quando non si accende in una particolare violenza poetica) è nelle lettere attenuato: alla sua ira fa qui riscontro un’aria di fastidio spesso sorridente ed ironico, alla sua furia malinconica una malinconia piú pensosa e placata. Quell’attenzione del poeta alle cose, al tempo, alle persone, agli agi e ai fastidi, che risalta dal grezzo esistere nelle lettere di oggetti, di argomenti quotidiani, dà al tono piú solido del sentimento alfieriano un senso di concretezza e di umanità che non mancano mai nella prima esperienza di ogni vero poeta. Ed è anzi brutto segno per un poeta o un artista quando il suono che rende questo strato prepoetico non si percepisce o è eccessivamente squillante, come accade con D’Annunzio o con altri estetizzanti sempre turgidi, sempre in posa, disumani spesso, non “piú che umani”.

L’accertamento di questo fondo di esperienza piú concreta, di questo gusto di vicende minute e domestiche, di ore comuni, di legame attento al tempo e alle cose serve poi a dare, già nelle lettere, agli scatti, alle esclamazioni intense e dolenti, alle voci della desolata solitudine e del disperato bisogno d’amore, alle intuizioni piú importanti per il suo atteggiamento preromantico, il loro accento piú valido e piú puro. In quest’aria meno fremente e pur densa, tanto piú profondi e non retorici risuonano gli accenti nuovi e personali: non vengono aboliti o smorzati, vengono anzi liberati dalla consonanza fragorosa che a volte l’eloquenza crea nella prosa illustre alfieriana.

I lampi della rivoluzione alfieriana sembrano anche piú intensi nell’aria meno rarefatta, piú calda, non eccezionale che circola nell’epistolario e assicura l’esclusione di una monotona posa, aggiunge al grido alfieriano un’eco di concretezza, di tempo vissuto, di spazio varcato, di ore scontate, di attenzione ad affetti e cose e persone che non manca mai, pur nel passaggio, notabile anche nelle lettere, dai toni piú impetuosi e cordiali della stagione giovanile a quelli piú saggi e acidi della senilità. Interesse magari al tempo buono e cattivo, al disagio delle locande settecentesche e delle stufe non abbondanti, alla costruzione di una carrozza o di un finimento da cavallo o alla preparazione della amatissima cioccolata, che si traduce in una cura anche stilistica di rilievo di parole e di oggetti, nella loro singolare e modesta luce di cose comuni e concrete. Piacere quasi di cose viste senza brillante patina, di gustosa empiricità entro movimenti malinconici o festosi, non tanto inclini a narrazione spiegata o a indugio descrittivo quanto ad avvii rapidi, ad accenni accorciati e perciò piú intensi in contesti senza pretese di lettere-saggio secondo il gusto piú diffuso del Settecento, amante del bel pezzo colorito e pittoresco.

Cosí i paesaggi, essenziali e funzionali ad un motivo poetico («Sol nei deserti tacciono i miei guai»[7]) nella Vita, nascono qui senza pretesa di descrizione pittoresca, e sono riprove di un senso del paesaggio non artificioso, istintivo, tale da sostenere trasfigurazioni stilizzate e persino il vuoto tetro delle tragedie che non sorge da una insensibilità, ma da una violenta astrazione poetica che non è arida e vuota proprio per il contrappeso di un senso vivo dello spazio e del tempo. Quanta piú concretezza di esperienza, tanta piú libertà di fantasia, quanto piú senso della vita, tanto piú alta stilizzazione tragica.

Si legga cosí la lettera a M. Bianchi da Colmar (29 novembre 1785) e si faccia attenzione non solo alla vicinanza a certi toni della Vita che vennero preparati certo nelle lettere, ma a questa nitidezza poco colorita e cosí intensa, a questa viva immersione del possibile quadro paesistico in un senso di vita di sentimenti non eccezionale eppure poetico, calcolato per un tono medio, non per un pezzo di bravura, intriso nella stagione, nell’ora, nello scorrere del tempo e dell’attività del poeta. Una speciale, modesta aura poetica sale da questa lettera nel suo tono confidente e affettuoso, nel suo quieto svolgersi fantastico nel senso del paesaggio e del tempo, nel sapore delle abitudini care di lavoro e delle fantasticherie sentimentali intorno ad alcuni affetti essenziali:

A Mario Bianchi, Siena.

Colmar, 29 novembre 1785.

Amico carissimo. Appunto tornando da un piccolo viaggietto in cui accompagnai la Signora verso Parigi, dove sarà a quest’ora, ho ritrovato qui la sua carissima dei 13 corrente scritta di Montechiaro, che mi è pervenuta in 14 giorni; e spero che d’ora innanzi le mie le perverranno colla stessa diligenza, indirizzandole, come ho fatto l’ultima, per Basilea, e Torino. Le parlo di nuove lettere, e tacitamente quello abbastanza le dice, ch’io non posso venir costà per quest’inverno.

Le ragioni sono: prima di tutte, il voler esser piú vicino alla Signora; e qui lo son tanto, che il quarto, o quinto giorno la posso vedere, e due volte in settimana averne, e mandarle le nuove. Questa, presso un cor come il suo, son certo che mi vale per ogni altra discolpa; ma vi aggiunga la infingardaggine mia, l’abitar quel luogo dove sono stato con essa, e dove ho ferma speranza di rivedervela; l’aver qui i miei libri, e scritti, e copista, e tutti i ferri dell’arte, in una casa molto allegra, ben esposta, ben comoda, e riparata, i cavalli in una ampia, e nitida stalla tutti insieme; il non udir mai pettegolezzi di nessuna specie; il non veder nessun curioso; l’essere lontano dalla città tre miglia, che è poco per averne le cose necessarie, e abbastanza per non averne le noje, le puzze, i lastrichi, i rumori, gl’investigatori: tutte queste cose m’hanno risoluto a star qui. Glie ne ho annoverati i beni, ora glie ne dirò i mali. Il clima, che comincia a pungere; però fin ora non c’è neve affatto, ma piova assai, e vento, e di tempo in tempo del ghiaccio; pure da Settembre in qua, tre o quattro giorni soli non sono potuto uscire, e i cavalli invece escono ogni giorno; ma il buono verrà verso Natale: lo aspetto con intrepidezza. Inoltre son solo, e non ho con chi leggere, né parlare, e la gente che potrei trovare a Colmar, non mi sarebbe sollievo, ma noja. Dai pochi giorni che sono qui solo, già ho visto che mi ci avvezzo; ed ella sa quante volte ho desiderato d’essere in villa cosí, e che non ci sono mai stato per mancanza d’opportunità, e forse anche di coraggio. Ora che mi ci trovo, e che posso a mio bell’agio librarne il bene, ed il male, trovo nondimeno che il bene la vince, e spero d’avvezzarmici a segno di starci gran parte, se non tutta la vita. Ma non dico già sempre qui; ci dobbiamo ravvicinare, e rivedere, solamente che mutino le circostanze: e la villa in Italia, con comodi eguali, deve essere di gran lunga piú piacevole, che la villa in questi climi sconsacrati. Le dipingerò questa ove sono, che è pur lieta quanto lo comporta il paese. Ella s’imagini un piano immenso come quello di Pisa, che va dal Mezzogiorno a Settentrione, in mezzo di cui passa il bellissimo fiume Reno, che farà sei Arbie almeno. Da Levante, e da Ponente, una catena di monti poco piú alti di quelli dei Bagni a Pisa; ma quelli di Ponente massime, alle falde de’ quali io sto, son tutti colti: vigne fino a mezzo colle, poi selve dietro fino alla cima, parte di castagni, parte d’abeti. Il piano da questi monti agli altri col Reno in mezzo, dove piú, dove men largo, è sempre almeno di dieci miglia, sicché i monti di Levante che mi stanno in faccia, e son piú alti, e tengon dell’alpe, bastano per riposar l’occhio da quell’immenso piano, ma non sono presso abbastanza per rattristarlo col loro orrore. La casa è posta in alto non piú che quella del Testa sul monte di Pisa andando a Lucca; ma questa piccolissima rialzatura basta per darle vista speditissima su tutto il piano, e vedo cogli occhi il Vieux Brissac, che è di là dal Reno, come si vede Siena da Montechiaro, essendoci però almeno 15 miglia italiane. Lateralmente ho dei piccolissimi colli tutti vigne, e gradatamente dietro il colle s’innalza, e finisce in selva. La casa, che qui si chiama Castello, è isolata, lontana un ottavo di miglio da un borghetto, che le resta al fianco e nascosto: onde colla sua umile miseria non dà noja all’occhio, e non volendo, non ci si passa per aver accesso al Castello. La stalla è una casetta a parte, cinquanta passi sotto al castello: sta sotto l’occhio, ma non dà impaccio. L’interno della casa è non grande, ma sufficiente: pulito all’eccesso, lietissimo, e mercè le stufe caldissimo. Io adesso le scrivo da una toretta, che ce n’è due agli angoli anteriori del Castello; in essa c’è tre finestre, e una stufetta, ed è chiara come una lanterna, e calda a segno, che ora le scrivo con una finestra aperta. La vita che fo, è questa: mi sveglio prima delle sei; piglio la lampada, e leggo, e scrivo in letto fino alle dieci. Alzato, chiamo il Segretario, e rivedo il Sallustio e le Tragedie, che son quasi finite di ricopiare. Cosí sto fino a mezzo giorno senza uscir di camera. Poi vo a fare una colazioncella, poi in stalla, e a cavallo e in biroccio far l’ozioso fino alle 4. Torno, mi do una pettinata ai pochi capelli che mi son lasciato, che sono anch’io scodato adesso per maggior comodo, e poi pranzo; mi rimetto al caminetto, penso agli amici, scrivo alla Signora, leggo qualche libro di poca applicazione; alle otto, e prima, torno in stalla a vederli mangiare, parlo col buon Cavalier Achille, bado alla casa, ragiono col Giannino della biada, del fieno ecc., e alle nove sono a letto.

In questa uniformità di vita passo i miei giorni, e non desidero però nessun piacere, né romore della città: altro non desidero, che la Signora, e poi lei, e la Teresina, e l’abate di Torino; e quel nostro unico, e grande, cui non posso desiderar piú, per l’impossibilità di rivederlo mai. Ma sto con lui spesso, e vo leggendo di quei suoi scritti, e in questa mia solitudine, in cui spero che mi tornerà l’ingegno, e che mi si ripurgherà il cuore, che sempre le città, e il mondo lo guastano, in questa mia solitudine certo verrà il giorno, che pensando dell’amico, potrò fare per lui qualche composizione, che non sia indegna né di lui, né di me.

Ecco finisco questa mia lunga lettera, in cui se io sono stato minuto oltre il solito, e forse oltre il dovere, me lo perdoneranno lor signori: l’ho fatto, perché giudicando di loro da me, so quanto è dolce il saper degli amici lontani anche le piú minime cose. Son tutto loro. S’amino, e m’amino, e mi scrivano. Ci rivedremo certo un giorno, e ne passeremo, spero, parecchi, e forse degli anni, insieme.[8]

Come i paesaggi cosí gli affetti e le relazioni sentimentali vivono in questo continuo impasto di quotidiano bonario e di fermenti piú vigorosi, l’agio autobiografico e di ritmo di vita intima, ed alla squisita misura civile settecentesca («Padron Colendissimo») un po’ rigida e un po’ festosa, ma spesso troppo accademica o troppo bernesca, aggiungono una misura intima riguardosa, pudica, che dà risalto alle espressioni affettuose, alle confessioni senza l’eccesso sentimentale, l’outrance delle lacrime degli epistolari ottocenteschi che spesso fanno annegare le diverse sfumature in un’unica abbondanza eccitata. Qui invece affetti, senso della società e della solitudine sono contenuti senza rigidezza in una sfera nativa e in una misura estremamente educata e insieme semplice, in cui convenienza e passione perdono le loro punte frivole o brutali e una serietà, una sicurezza virile preparano toni piani e densi, in cui poi erompono, con maggiore forza, le rare espressioni dell’animo profondo, del dolore di solitudine, del senso della morte, dello sdegno contro i tempi bassi, del bisogno di valori intatti e di relazioni sentimentali che salvino dalla solitudine in cui il poeta si rinchiude contro la mediocrità e la viltà.

Cosí sono esemplari le lettere alla madre, tenere e rispettose, con un tono squisito di condiscendenza amorevole che frena qualche desiderio di scatto e di rimprovero sino a fingere, per pietà filiale, un atteggiamento religioso non suo[9].

Ecco, nella direzione di una misura squisita e d’una rara maturità sentimentale, nel giro perfetto d’una soluzione umana e stilistica di una difficile situazione, la lettera pisana ad Alba Corner Vendramin:

Scrivere per affliggerla non ho il coraggio, né la durezza; per ingannarla non ho viltà; per consolarla, o lusingarla, poco mi amerebbe e meno mi stimerebbe ella stessa se io lo potessi fare. Che le posso dunque io dire altro, se non che da sei anni in qua ella è la donna sola ch’io sia stato costretto a fuggire; e che m’abbia lasciato sorger il pensiero ch’altra donna esistesse al mondo che la mia. Ogni mia espressione oltre questa le parrà, e sarebbe, insipida e fredda, e nojosa per lei. Finisco dunque con assicurarla, ch’io non confondo lei con nessuna altra donna, e che mi rimarrà bene in capo sempre la rara serie delle sue amabili qualità. La vedrò al teatro; ma dovendo io partire domattina per tempo, non ci potrò star tardissimo, stante che da due notti quasi non dormo per il gran romore che c’è in questa maledetta locanda. Se non al teatro la vedrò prima al caffè; cercherò insomma di lei, e sarà pensier mio il trovarla.[10]

Ma sono soprattutto indicative per questa zona meno considerata negli studi alfieriani le numerose lettere (il gruppo piú compatto e piú bello di tutto l’epistolario) dirette ai senesi Mario Bianchi e Teresa Mocenni Regoli (la madre di Quirina, la «donna gentile» del Foscolo), scritte fra il 1784 e il 1796.

C’è in queste una continuità di tono nell’agio di una amicizia divenuta cara abitudine, impiantata su di una gradevole somiglianza di situazione sentimentale, e quasi su di un mito nostalgico, Siena, e su di un legame al ricordo dell’amico piú amato, al saggio e sensibile Francesco Gori Gandellini: il destinatario della dedica della Congiura de’ Pazzi, l’eroe del dialogo La Virtú sconosciuta, ma piú ancora, in queste lettere e in questo tono piú familiare, e non meno intenso, il Checco, l’amico disceso precocemente nella tomba quasi per un disdegno dei tempi e legato, nel ricordo, alla comprensione e al gusto di essenziali elementi della vita di uomini bennati, amore, amicizia, paesaggi, poesia. Sí che, in una lettera pisana dell’8 luglio 1785 al Bianchi, il chiaro suono di elegia, di malinconia pensosa e tenera (ma non della tenerezza pindemontiana o bertoliana) porta ad avvii poetici su questo tema dell’amico scomparso, della ricordanza triste, dolce e non disperata che sorregge cosí bene il ritratto dell’Alfieri delle Rime e arricchisce l’humus sentimentale da cui nascono alcune grandi figure delle stesse tragedie nei loro momenti piú stanchi e abbandonati:

Amico carissimo. Grazie al Cielo qui è piovuto, e piove tuttavia, talché il tempo è moltissimo rinfrescato, e fin ora non mi posso dolere del caldo di Pisa: ed i giorni che è stato il piú, l’ho sentito assai meno che in Firenze; c’è quel Maestrale periodico, che non manca all’undici mattina, e rattempra maravigliosamente l’ardor del Sole. La mattina, e sere, poi è freddo addirittura, ed io non ho lasciato ancora mai l’abito di panno. Fo la mia solita vita, d’alzare alle 4, e godo moltissimo di quella vista di campagna al levar del Sole: cosa, credo, che a lei, fuorché per la coppiola, non succede mai. Sto tuttavia sulle mosse per andar a Lucca, e a’ Bagni, ma non mi so muovere, e credo che non ci anderò; neppure a Livorno ho il coraggio d’andare, dove vorrei vedere quella nave del Re; e noti che ogni giorno fo 15, o 20 miglia a cavallo, ma torno a casa: son uomo, o per dir meglio bestia d’abitudine, e non la posso rompere se non col farmi violenza. Vorrei esser con loro, e non vorrei lasciar queste mie bestie, che sono insomma il mio unico sollievo, e ora che cavalco tante ore piú, ci ho preso piú affetto. Ce n’andiamo io, e il Cavaliere soletti la mattina, e poi la sera in biroccio: alcune volte alla comedia, altre ai Bagni da quella Genovese malata, e fra giorno dormo assai, leggo poco, e correggo le Tragedie; sono all’Ottavia ora, e mi restan delle stampate quelle tre ultime sole. Penso spessissimo a Checco nelle mie passeggiate mattutine, e dico: questo luogo gli piacerebbe, questa città, questo fiume; e poi piango, e poi leggo il Petrarca, che ho sempre in tasca; penso alla Donna mia, e ripiango, e cosí tiro innanzi, e desidero la morte, e mi spiace di non aver ragioni per darmela: e in quel mezzo di stato dolente, e non disperato, ho l’anima morta, e il cuore sepolto, e non riconosco me stesso.[11]

Che è oltre tutto un avvio importantissimo di prosa preromantica valida quanto quella del furore e del piglio rivoluzionario della Tirannide o del Principe e delle Lettere, come la malinconia di questa pagina sofferta, limpida, attenta non è meno disponibile, per la poesia, delle malinconie terribili di cui ci parla la Vita.

In quelle lettere, da contesti sempre ariosi e poco tesi, si staccano inaspettate mosse festose e nostalgiche, rapidamente abbandonate per paura di eccesso. Come poi da pagine piene di descrizioni appena accennate di gite, di lavoro, di rappresentazioni, o di incombenze per librai e per dolcieri, salgono ricordi piú teneri, scatti di umore e, piú in profondo, le espressioni piú vive del sostanziale male di vivere, della insofferenza dei limiti posti dalla vita, pure amata nelle sue offerte meno vistose, piú elementari e schiette.

Cosí, quando in una lettera del 25 maggio 1785 lo scrittore rompe un seguito di notizie con righe rapide e di estrema semplicità («Sto bene; son tristissimo, e solo nel mondo»[12]) o quando, in quest’aria d’intesa di «fini amanti», in uno stile di idillio domestico robusto e affettuoso, in cui ogni eco profonda si allarga con maggiore efficacia, leggiamo frasi come queste: «mi si arricciano i capegli sempre ch’io penso al pericolo che si corre quando si vive in altri come facciam noi; ma anche cosí prezioso, e unico dono della Natura di poter vivere amando riamato, non si può mai mai comprar caro abbastanza: e guai a chi non lo sente, ma guai purtroppo anche a chi lo sente» (9 aprile 1786)[13], oppure: «Non le dico altro, perché sto troppo addolorato, e solo nel mondo; mi saluti la Teresina caramente; e beato lei che ogni giorno può vederla, e contarle i suoi guai, e sentire i suoi. Sola dolcezza nella vita: il resto è morir continuo» (20 dicembre l 784)[14], si ha la conferma di una intensità sentimentale di rara potenza e di rara sincerità, in cui il mondo poetico alfieriano trova le sue radici piú sicure con i suoi furori libertari, con la sua poesia dell’urto titanico ed eroico e con quella robusta mestizia che permea i suoi versi anche quando appaiono troppo recitati, senza spazio di sogno, in un parossismo di ardore, gelato in gesti statuari. Una densa zona di fermenti, di strati soavi e tristi, rudi e immediati, di elegia e di idillio legati ad un tono di esperienza di uomo nato per la poesia, nutrí la piú alta espressione alfieriana e i motivi illustri dell’angoscia e dell’amore nascono irrigati da questa vena piú segreta e in questo terreno fecondo. Come, nella sua trasformazione da motivo vitale in motivo lirico, si conferma l’originalità del bisogno alfieriano dell’amore e dell’amicizia di fronte alla morte e alla solitudine, su cui insistono con tanta chiarezza le lettere per la morte del Gori Gandellini e per la morte dello stesso Bianchi. Si ascoltino queste frasi in occasione della morte del Gori, essenziali per capire la solitudine alfieriana cosí desolata e bisognosa di conforto nel campo degli affetti: «Oh Dio, io non so quello che mi dica, né faccia: sempre lo vedo, e gli parlo, e ogni sua minima parola, e pensiere, e atto mi torna in mente, e mi dà delle continue, e dolorosissime pugnalate nel core. Perdo un cosa che non si trova mai piú: un amico vero, buono, ingegnoso, disinteressato, e caldissimo. Il mondo perfido non li dà questi tali, né ve li cerco. Oh Dio, se non mi restasse un’altra cosa, che riunisce tutte le mie speranze, affetti, e disegni, io certo non vorrei sopravvivere: che di tutte le cose del mondo sono sazio, e nessun’altra dolcezza vi può essere nella vita che lo sfogo sicuro, e intero del core, reciproco, e continuo» (17 settembre 1784)[15].

E nella lettera del 15 novembre 1796 per la morte del Bianchi, la simpatia e la semplicità con cui l’Alfieri si avvicina all’animo della povera Teresa e la sua sincera commozione vengono superate in intensità dal personale orrore al pensiero della morte che spezza gli affetti (dirà il Leopardi alla natura: «Come potesti / far necessario in noi / tanto dolor, che sopravviva amando / al mortale il mortal?»[16]):

Signora Teresa Padrona Stimatissima. Il lungo silenzio mi faceva piú tremar che sperare. Onde neppure mi ardiva domandare le nuove, sapendo che le speranze eran nulle. Quindi è ch’io non ho saputo la fatal nuova che dalla di lei lettera ricevuta stamane. Altrimenti non avrei aspettato adesso a scriverle; non dirò per consolarla, che questo è impossibile, ma per accertarla del dolor mio, che è quanto possa mai essere per una persona con chi da tempo non conviveva. Ma ella, Signora Teresa, mi fa veramente pietà piú assai che l’estinto, i di cui patimenti sono finiti. La sua lettera mi strappa il core. Sento tutto l’orrore d’uno stato ch’io rabbrividisco solo in pensare che può essere il mio una volta. Ed, oh quanto sarebbe peggiore per me, che vivo isolato da tutti, in terra straniera ed inospita, chiuso in me stesso, in me solo. Oh Dio! Spero di non restar l’ultimo; ma per altra parte posso io desiderare alla parte miglior di me stesso, uno stato ch’io non avrei il coraggio di sopportar mai? Son cose terribili; ci penso spessissimo, ci scrivo qualche volta su dei versacci, per isfogo dell’animo; ma non mi avvezzo mai né al pensiero di rimanere solo, né a quel di lasciar sola la donna mia, che anch’essa per le stesse ragioni sarebbe tanto piú infelice di quel che ora sia lei, Signora Teresa, in questo orribile momento. Se lo lasci dire: a lei restano altri legami in questo mondo: ella ha una patria, una famiglia, degli amici comuni con chi parlare e piangere il desiderato amico; e piú di ogni cosa ella è madre, e questo è legame che dee prestar gran coraggio al soffrire, e dar col tempo dei massimi sollievi al dolore. Sicché ella vede, che noi saremmo piú assai infelici di lei in un simile caso. Ma ciò che le giova? Lo so che non giova; né altro le può giovare per ora che il parlare di Mario, e lo sfogo del pianto. Se l’uno e l’altro le piace di fare per lettera, con chi certamente la compatisce dall’intimo cuore, non tema di nojarmi, e mi scriva le pagine intere; se io sarò scarso di parole nel risponderle, non lo sarò certamente di lagrime nel legger le sue: il che per l’appunto ora mi avvenne nel ricever la lettera. Ed oppresso dal di lei dolore, e dalla possibilità del nostro consimile, finisco per ora. Si ricordi ch’ella ha degli amici e dei figli.[17]

E non solo la complessa ed essenziale geografia sentimentale dell’Alfieri nella sua vocazione poetica, nella sua destinazione letteraria già avviata chiaramente in queste lettere, che sono ben lungi dal costituire un rozzo materiale biografico, viene scavata e ripulita dalla mano di gesso retorico buttatoci sopra da una tradizione generosa, e utilitaria; non solo si rilevano nella loro origine piú delicata e sicura i motivi essenziali della solitudine desolata e dell’amore come disperato e caldo tentativo di uscire dalla solitudine, di varcare il silenzio che circonda l’individuo; ma assumono maggior valore, nel clima delle lettere, alcune affermazioni di irrazionalismo antiilluministico estremamente interessanti per il dramma dell’Alfieri, dentro una cultura inadeguata per la sua prospettiva e teso verso una giustificazione diversa che in lui rimase solo potentemente sentimentale e poetica. Ed anche queste affermazioni importanti per la sua rivolta contro «la filosofia dei lumi» (quell’illuminismo razionalistico e sensistico da cui pure mediò tanti motivi violentandoli in un senso ben lontano dalla media sistemazione culturale illuministica) sono tanto piú vive, proprio per la loro nascita non da una posizione dottrinaria, o da una polemica comunque libresca, ma da una immediata freschezza di risentimento istintivo e, nelle lettere, dentro contesti semplici, piani, di conversazione confidenziale: sempre cioè nel cerchio di intatta originalità sentimentale che ci assicurano le lettere.

Cosí, in una lettera al Bianchi del 31 gennaio 1785, a proposito del giudizio in poesia (tema cosí dibattuto fra illuministi classicisti e preromantici e cosí centrale nel periodo romantico), ecco una di queste improvvise esclamazioni che non si riducono, come significato storico, al semplice scatto istintivo da cui pure nascono: «Mi farà vero piacere la signora Teresina a dirmi tutto quello che le sarà passato per la mente nel rileggere le Tragedie ultime: sí in bene, che in male. L’avrò caro assai; e chi sa ch’io da una Donna che sente non cavi piú lumi assai, che da professori che hanno il cuor col pelo? Anzi, non c’è dubbio: buon senso, e core fanno i giudici nelle cose passionate»[18]. E su questa via della vittoria del sentimento in esperienze concrete e continue, in una lettera del 10 dicembre 1796 alla Mocenni, dopo la morte del Bianchi, l’Alfieri scriveva delle frasi sul valore della credenza nell’immortalità in funzione del sentimento e della vita, che costituiscono una viva introduzione ad una discussione romantica sulla morte e sulle illusioni, scritta da un sensista tormentato e scontento («Veder, toccare, udir, gustar, sentire; / tanto, e non piú, ne diè Natura avara»[19]):

Signora Teresa amatissima. Ricevo in questo punto la sua. Appena ho il tempo di scriverle due versi, perché la posta riparte oggi, e ho la Signora con una grave flussione di denti, il che mi lascia poco tempo. Tuttavia le voglio subito dire, che abbiamo letta la sua lunga lettera tutti due insieme al camminetto, e non l’abbiamo trovata niente lunga, perché il suo dolore è vero, è grande, ed è semplice. Ci abbiamo pianto tutti due moltissimo. Son persuaso che per lei tanto è un piccolo sollievo il dare sfogo al suo cuore, e l’esser convinta che noi ci prendiamo la massima parte del suo patimento. Ma è cosa terribile il non potervi apportare rimedio, né vero sollievo. Ho visto il Vittorino, l’ho trovato cresciuto e abbellito; ci metta quanto potrà piú affetto in questo ragazzo; ha la faccia di voler esser buono, e le dovrebbe col tempo dar qualche consolazione. Tutto quello ch’ella mi ha raccontato particolareggiando su la malattia dell’amico, mi ha vivissimamente commosso, e sono sturbato troppo per poter scrivere senza far male a chi sta peggio di me. Troppe cose avrei da dire; ed una volta ci rivedremo, e se ne parlerà piú a lungo. Alcune opinioni son piú utili, e soddisfano piú il cor ben fatto, che altre. Per esempio, giova assai piú alla fantasia, e all’affetto, il credere che il nostro Mario sia col Candido, e col Gori, e che stiano parlando e pensando di noi, e che li rivedremo una volta, che non di crederli tutti un pugno di cenere. Se tal credenza ripugna alla fisica, e all’evidenza gelida matematica, non è perciò da disprezzarsi: il primo pregio dell’uomo è il sentire; e le scienze insegnano a non sentire. Viva dunque l’ignoranza e la poesia, per quanto elle possono stare insieme: imaginiamo, e crediamo l’imaginato per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio; che Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente; e Cani chiamo, o Francesi, che è lo stesso, i gelati Filosofisti, che da null’altro son mossi, fuorché dal due e due son quattro. Son tutto Suo.[20]

Nell’ultima parte dell’epistolario, se prevale il tono acre e sdegnoso (in cui dignità e involuzione sentimentale nei riguardi della Rivoluzione francese, novità dell’esigenza nazionale e della concretezza costituzionale, insieme al fiele senile della xenofobia, lo rendevano insieme attuale e reazionario) come nelle lettere alla Plebe francese, al nipote Colli, al Lagrange ecc., cresce però anche un tono di saggezza in contatto con il “nuovo” Montaigne, l’abate di Caluso, e in un chiudersi della vita intorno allo studio e all’agio domestico difesi tenacemente contro ogni intrusione, intorno ad affetti essenziali gelosamente custoditi anche contro ogni retorica. In mezzo a discussioni culturali spesso bizzarre (il novizio in lettere greche!) e a riflessioni tecniche, si fan luce intuizioni sulla poesia e sulla natura del letterato che si aggiungono e spesso correggono le pagine programmatiche del Principe e delle Lettere, e che, se nascono piú svagate e staccate, risentono anche di un’esperienza piú concreta proprio fra vita e letteratura. Come nella lettera del 25 novembre 1799, al Caluso, in cui, in forme ancor vecchie e classicistiche, l’Alfieri veniva a proclamare la libertà della poesia nel suo esprimere “bene”, nel suo “divinizzare” ogni contenuto in quanto poesia, creazione artistica, e nell’alta libertà dello scrittore. Poesia figlia di libertà, e «del forte sentir piú forte figlia», ma essa stessa libera e regina del mondo:

Del resto non vi voglio poi vedere cosí spaventato dell’impresa di lodare degnamente la Principessa. Ancorché essa non abbia fatto, o scritto cosa che la possa far viver da sé, basta che le lodi, o gli scritti parlanti di lei siano ottimi, ella vivrà in essi. Il Petrarca avrebbe eternato la sua gatta se ne avesse voluto scrivere, quanto la sua Laura. Meglio di me voi sapete che τοῦτο γὰρ ἀϑἀνατον φωνᾶεν ἔρπει, Εἴ τις εὗ εἴποι τι.[21]

O troviamo alte intuizioni e affermazioni sulla relazione fra letteratura e vita che arricchiscono intimamente il ritratto illustre del letterato naturaliter indipendente, anticortigiano, anticonformista, vivo nella lotta fra bene e male, e che legano quella figura sdegnosa e solitaria

Uom, di sensi, e di cor, libero nato,

fa di sé tosto indubitabil mostra.[22]

non ad una boria astratta, ma ad una vita poetica e pura, ad una vita di affetti essenziali, fuori della vanità e della retorica, vissuta di fronte al pensiero della morte, a quel gusto e a quella sofferenza della vita, tanto sinceramente espressi in queste lettere. Ed un’ultima citazione da una lettera del 21 aprile 1800 all’abate di Caluso conferma bene questa impressione di una vita intensa e meditata dell’uomo consapevole dei termini essenziali della sua esperienza matura, senza illusioni e senza disperazioni:

Amico Carissimo. Ricevo stamane lunedí la vostra dei 16 corrente; e benché mi abbia cavato per ora dalla dolce persuasione in cui mi stava di rivedervi presto, pure mi ha fatto un sommo piacere, svelandomi la cagione dell’altra lettera, e togliendomi ogni sollecitudine che vi fosse accaduta, o stesse per accadervi alcuna cosa disastrosa, o spiacevole. Ma insomma ora che ho visto quel che è, mi sono acquetato, ed ho accresciuto, se pure era possibile, la mia stima ed il mio affetto per voi, ammirando e venerando il vostro contegno fraterno veramente, e di vero savio, che lascia il torto agli altri, e reputa per somma felicità e ricchezza la somma quiete e tranquillità dell’animo. I veri Letterati, che non fanno bottega del loro sapere, sono veramente i Re di questo mondo, e le gerarchie ed i Santi dell’altro. Lo studio, ed i libri, e le dolcezze domestiche, aspettando la morte, sono veramente le sole cose che meritino d’essere considerate dall’uomo, quando ha sfogata la gioventú.[23]

Una frase che riassume tutta una vita di letterato tra la “gioventú sfogata” e l’attesa serena della morte, sicuro nella sua dignità di uomo libero, non di mestierante, “re e santo”. E nel tono una calma di distacco senza gelo, di saggezza appena increspata dalla parola «morte», mossa dalla bellissima espressione finale, avvivata dalla leggera mescolanza di ironia e di ieraticità nell’accenno ai letterati “re e santi”. Veramente un Alfieri ottocentesco vicino a Didimo e ad Ottonieri: una natura poetica genuina quanto l’umanità che troppi (anche grandissimi) non seppero riconoscere.

Dalla ricerca dentro una zona di preistoria poetica (ed inibendoci qui un piú preciso raccordo con lo studio del contributo delle lettere alla formazione della prosa alfieriana) ci sembra derivi comunque un allargamento della nostra conoscenza dell’Alfieri al di là di quanto ci offrivano funzionalmente Rime, Vita e Giornali: non si tratta evidentemente di sostituire all’Alfieri poeta della tragedia umana e della tragedia della libertà (non solamente politica) un Alfieri sommesso, tenue e domestico. Si tratta solo di contribuire ad arricchire la nostra impressione di lettori moderni, a sentire la ricchezza di sfumature e di toni dell’animo alfieriano e di romperne l’apparente fissità.


1 Quando scrissi questo saggio si disponeva della vecchia edizione dell’epistolario del Mazzatinti (Torino, Roux, 1890), e di quella del 1903 (Torino, Paravia; vol. II delle Opere), di poco diversa. Su quelle edizioni mi fondai per la mia scelta di lettere (Giornali e lettere scelte cit.). Piú recentemente L. Caretti (cui già si dovevano saggi con correzioni a lettere già edite e contributo di inedite: Per una nuova edizione dell’«Epistolario» alfieriano, «Annali alfieriani», I (1942), pp. 191-208, e Lettere inedite di V. Alfieri alla sorella Giulia, nel volume Vittorio Alfieri, Studi commemorativi in occasione del centenario della nascita, Università degli Studi di Firenze, Soc. Editrice Universitaria, 1951) ha pubblicato nell’ambito dell’Edizione Nazionale delle Opere l’intero epistolario alfieriano: V. Alfieri, Epistolario, ed. critica a cura di L. Caretti, 3 voll., Asti, Casa d’Alfieri, 1963-1981-1989. A questo testo si sono ovviamente uniformate tutte le citazioni dalle lettere.

2 B. Croce, Alfieri, «La Critica», Vol. XV (1917), pp. 309-317; si può leggere da ultimo in Id., La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, a cura di M. Sansone, II, Bari, Laterza, 1956 (19718), pp. 354-366 (e già precedentemente raccolto in Id., Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923 (19647), pp. 1-14).

3 Vedi Journal d’Italie, cap. XLVIII.

4 Bari, Laterza, 1925 (19596).

5 Per le interpretazioni moderne si veda ora il volume di C. Cappuccio, La critica alfieriana. Orientamenti e prospettive, Firenze, La Nuova Italia, 1951, e B. Maier, Alfieri, Palermo, Palumbo, 1957 (19733). Per una valutazione del pensiero e della personalità alfieriana si veda il volume di M. Fubini, Vittorio Alfieri (Firenze, Sansoni, 1937, 2a ed. riveduta e corretta ivi, 1953), ed ora dello stesso Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 2a ed. accresciuta ivi, 1963 (19672).

6 Dei Sepolcri, v. 190.

7 Son. 173, v. 14; Rime cit., p. 146.

8 Epistolario cit., I, pp. 312-315.

9 «Ella mi domanda s’io ho buon direttore; veramente non voglio peccar d’ipocrisia col dirle ch’io abbia dei lunghi e spessissimi abboccamenti con esso; ma pure nelle occorrenze conosco, e tratto un Capuccino di nazione Corso, che è uomo di santa ed esemplarissima vita» (Parigi, 27 gennaio 1791). Epistolario cit., II, p. 53.

10 Epistolario cit., III, p. 182 (il Caretti la colloca nell’appendice alla fine del III volume fra le lettere in data incerta, ma propende per il 1783 e non per il 1785 come propone l’edizione del 1903).

11 Epistolario cit., I, pp. 289-290.

12 Ivi, p. 275.

13 Ivi, p. 323.

14 Ivi, p. 206.

15 Ivi, p. 190.

16 Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 101-107; in G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1969 (19896), I, p. 37.

17 Epistolario cit., pp. 191-192.

18 Epistolario cit., I pp. 222-223.

19 Son. 17, vv. 9-10; Rime cit., p. 15.

20 Epistolario cit., II, pp. 197-198.

21 Epistolario cit., III, pp. 41-42.

22 Son. 288, vv. 1-2; Rime cit., p. 234.

23 Epistolario cit., III, pp. 67-68.